22 Giu Dal Burkina Faso all’Italia
Sono un clandestino. Racconto come sono arrivato in Italia e come vivo.
Mi chiamo Kuan e sono del Burkina Faso. Sono arrivato in Italia un anno e mezzo fa e sono clandestino.
Emigrai da solo, perché ero stato abbandonato da piccolo, in cerca di fortuna, spinto da quello spirito avventuriero dei ragazzi, ma anche spinto dai racconti che facevano gli anziani del villaggio sui paesi europei e americani. Mi dissi che volevo andare in America, ma abbandonai questa idea quando il capo del villaggio, a cui avevo anticipato i miei pensieri, mi spiegò che l’America era distante migliaia di kilometri e lui mi disse: “Quanto ci metti per andare a prendere l’acqua?” Gli risposi: “Un’ora e diciassette minuti”. Avevo imparato a leggere l’ora grazie ad un orologio, a cui tenevo tantissimo, che avevo trovato per terra qualche mese prima, caduto probabilmente a uno dei rarissimi turisti. Allora l’anziano mi disse: “Ecco, l’America dista migliaia di volte un’ora e diciassette minuti”.
Pensai che non fosse vero, ma non osai contraddirlo, intanto iniziai a maturare l’idea di partire per l’Europa.
Partii alle 5.18 del 20 marzo 2013. La mia meta era Uogadogu, la capitale del paese.
Per arrivarci feci due ore a piedi, poi mi diede un passaggio un simpatico vecchietto che guidava una Jeep alquanto scassata. Arrivai a Uogadogu alle 7.58. Cavolo com’era grande! Pensai che dovesse essere la città più grande del mondo. Mi diedi subito da fare a cercare la comitiva. La trovai alle 9.18 che stava preparandosi per partire. L’orario di partenza era previsto alle 9.30.
Il capo comitiva era davanti al rimorchio del camion e raccoglieva la tariffa del viaggio: il costo era di 50 franchi. Io nel corso degli anni ne avevo risparmiati 70. Pagai ed entrai. Passarono due ore e venti minuti senza che succedesse niente, ma a mezzogiorno incontrammo un’altra comitiva che era rimasta a piedi perché era stata attaccata dai beduini e il capo comitiva, dopo aver fatto scendere i passeggeri, era scappato via col camion. Non potevamo ospitarli per mancanza di spazio così andammo dritti e questo non mi dispiacque. Il nostro capo ci promise che lui non ci avrebbe abbandonato in caso di attacco, ma non ne ero sicuro.
Alle 2.12, in piena notte, varcammo il confine libico e alle 11.07 arrivammo a Tripoli, dove stetti due giorni prima d’imbarcarmi. Il 24 marzo mi imbarcai a Tripoli sulla nave “Saint Gérome”. Il costo della traversata era di 50 franchi, ma io ne avevo solo 20. Il comandante mi disse che non dovevo preoccuparmi e ridendo mi comunicò che c’era lo sconto ragazzi e avevo un posto riservato nella stiva. Partimmo alle otto e subito l’atteggiamento gentile del capitano cambiò e diventò arrogante e burbero. Si presentò con un mitra, che lui diceva servisse per difenderci dai pirati, ma faceva paura lo stesso. Ci disse anche che in Italia lo conoscevano bene e lo avrebbero accolto a braccia aperte.
Dormii dieci ore e mi svegliai alle 18.30 per mancanza d’aria. Salii a forza sul ponte per respirare: all’orizzonte si vedeva già Lampedusa.
Il comandante pareva turbato e, quando vide in lontananza un puntino nero in cielo che si avvicinava, ci puntò il mitra addosso e, urlando, ci ordinò di buttarci in mare e chi si rifiutava sarebbe stato ucciso sul colpo. Io non sapevo nuotare.
Piuttosto che morte certa, mentre gli altri si tuffavano, trovai un’asse che si era staccata dal pavimento di poppa e mi buttai. L’acqua era gelata, era la prima volta che venivo a contatto con l’acqua marina. Subito molte persone si accalcarono per aggrapparsi alla mia asse, ma io riuscii a difendere le mie due spanne di legno. Il resto glielo lasciai.
L’orologio si era rotto a contatto con l’acqua ed era fermo alle 18.43. L’idea di non sapere l’ora precisa mi mandò in panico. Era una delle poche cose che mi dava sicurezza. Arrivarono i soccorritori e, quando toccai terra a Lampedusa, avevo esattamente 14 anni e 5 mesi. Non sapevo con precisione quando fossi nato, ma per me avevo 14 anni e 5 mesi.
Riuscii a sfuggire dal campo d’accoglienza e ore vivo clandestinamente a Palermo dove lavoro in nero per un produttore di arance. Non sarò ricco, non avrò i documenti, ma ho la dignità di chi non si è mai aspettato niente dal mondo, di chi non ha mai rubato a nessuno e di chi si accontenta di quello che ha.
Pietro S., classe 3H Scuola Secondaria C. Durazzo
Foto credits: Flickr / Sara Prestianni
redazioneminiscoop
Posted at 10:43h, 22 Giugnobellissimo articolo, grazie Pietro
roberta allemani
Posted at 13:50h, 22 GiugnoDavvero un bel testo!Complimenti !Interessante l’idea dell’orologio che accompagna lo sviluppo .Bravissimo!